mercoledì 3 giugno 2009

I Monacheddi in ebook

Dal portale della casa editrice XII...

I Monacheddi

di Simone Lega

Racconto vincitore di Una Storia al Mese - [Marzo 2009] + Intervista all'autore.

Leggi il racconto (PDF)
All’epoca – erano gli anni quaranta – dicevano tutti di vivere a Siracusa, ma in realtà intendevano l’isolotto di Ortigia.
Oggi Ortigia è solo un quartiere, ma allora oltre il mare non c’era che campagna incolta. L’isola era piccola, stretta tra edifici bassi e storti, puzzolente e grigia, vecchia e marcia. Era bellissima.

(Clicca sul titolo o sull'immagine per leggere, o vai sul sito di XII)

domenica 31 maggio 2009

Amare per Forza

Domani 1 giugno, ore 22.00, al cortile dei Bottai (Giufà-Sa.Le)

lunedì 18 maggio 2009

Amare per Forza!


Giorno 1 giugno alle ore 22.00 al cortile dei bottai (Giufà-Sa.le) ci saremo io, Valentina Rubino e il "Teatro Instabile Sr" con lo spettacolo "Amare per Forza!", che è un pò reading e un pò teatro...

Vi aspettiamo numerosi, tanto l'indomani non si lavora!

martedì 24 marzo 2009

USAM di marzo

Un'altra bella notizia:

dal portale della casa editrice XII
USAM edizione XIII: la classifica finale



logo usam

Si è conclusa la XIII edizione di Una Storia al Mese, edizione che ha visto sfidarsi ben 20 racconti in una battaglia serrata di storie di ottima fattura. Non è stato facile per i giurati nominati direttamente dal Monolito scegliere il vincitore, ma alla fine è stata decretata la classifica finale:

I. Simone Lega - I Monacheddi
II. Alfredo Mogavero - Notte da paramedici
III. Alberto Priora - La piazza sui binari
IV. Mario Freccia - Parole proibite
V. Nicola Roserba - Il Giorno dei giorni
VI. Il senso della vita - Andrea Viscusi

Come al solito, la storia vincitrice sarà pubblicata in ebook il mese prossimo su XII Online, sezione Storie, unitamente a un'intervista all'autore.



venerdì 20 marzo 2009

L'Ultimo Desiderio

Altra bella notizia di qualche giorno fa: il mio racconto "l'ultimo desiderio" sarà pubblicato nell'antologia "La Lussuria" edita da Giulio Perrone editore.
Lo trovate - o potete richiederlo - in tutte le librerie. Il prezzo si aggira intorno ai 15 euro.

venerdì 13 marzo 2009

Sansone

Sul nuovo numero di Inout, il mio racconto "Sansone"!
Per chi volesse saperne di più, cliccate qui
Tra l'altro, lo scorso numero (credo ancora reperibile) ha dedicato un ampio servizio al "Teatro Instabile di Siracusa"

Insomma, una rivista che costa come un caffè, e dà spazio alle voci nuove. (In più pare che ci sarò anche il mese prossimo!)
Compratelo, dai!

sabato 7 marzo 2009

L'Orfana

E' uscito oggi (per la verità ieri) il nuovo numero della rivista "I Siracusani". All'interno - gioia e gaudio!- c'è un mio racconto.
La trovate in tutte le librerie di Siracusa, oppure qui

giovedì 12 febbraio 2009

mercoledì 11 febbraio 2009

sabato 7 febbraio 2009

domenica 25 gennaio 2009

Benedetto il Cassonetto

Tempo fa mi contattò Valentina del "Teatro Instabile Siracusa", proponendomi di inventare e buttare giù un testo per bambini riguardo la raccolta differenziata. Serviva per una rassegna teatrale promossa dall'Ato Ambiente Sr1.
Ci ho provato. Ne è venuta fuori una cosa chiamata "Benedetto il Cassonetto".
E' andata bene, oggi "Benedetto il cassonetto" è uno spettacolo da quindici repliche portato in scena dal "Teatro Instabile Siracusa" nelle scuole elementari di Siracusa e provincia:

Clicca per ingrandire

sabato 24 gennaio 2009

Vittoria USAM

Dal portale di "Edizioni XII" www.xii-online.com

USAM edizione XI: la classifica finale



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La XI edizione di Una Storia al Mese, la prima

del 2009, ha visto sfidarsi 16 autori che ce l'hanno

messa tutta per scrivere il miglior racconto possibile.

Da questi 16 ne sono stati scelti 5 e la giuria

ha poi decretato la classifica finale:


I. Simone Lega - La Stanza delle Grida
II. Alfredo Mogavero - La poesia sepolta
III. Luigi Rinaldi - Quel problema giù all'impianto
IV. Grazia Gironella - Il Sottile filo giallo
V. Alessandro Canella - Identità

Come al solito, la storia vincitrice sarà pubblicata in ebook

il mese prossimo su XII Online, sezione Storie,

unitamente a un'intervista all'autore.

mercoledì 21 gennaio 2009

Buonanotte amore mio

Finalista al Premio Letterario “USAM – una storia al mese” indetto da “edizioni XII” (ottobre 2008)



Andò da sua madre per comunicarle la bella notizia. Salì le scale nervosa, indossava alti stivali neri e una gonna al ginocchio. Scollata come al solito. Sua madre l’accolse con la faccia sciupata, senza un sorriso, Carola cercò di sorridere per entrambe:
“Come va?”
“Solito.”
Carola temporeggiò. Mamma non le aveva chiesto niente di Sandro. Erano sedute al tavolo quando prese il coraggio a due mani e le diede la notizia. Sua madre sbatté i pugni sul tavolo, si portò la mano al viso e pianse scuotendo la testa. Carola se ne andò via in silenzio. Nell’androne si mise a piangere con la mano sulla maniglia dorata del portone. L’eco dei suoi singhiozzi si perse per la tromba delle scale sporche. Andò via a piedi, lasciando la macchina posteggiata sotto casa di sua madre. Col sole tra i bei capelli castani fece una lunga passeggiata fino in centro, a testa china, pensierosa. I ragazzi che passavano in motorino e in macchina le lasciavano gli occhi addosso e poi scuotevano la testa con un sospiro immaginandosela nuda. Ma nessuno si azzardava a infastidirla, nessuno si sarebbe mai permesso anche solo di sorridere alla ragazza di Sandro Torrisi, detto Mazzacane.

Carola l’aveva conosciuto due anni prima, quando andava ancora a scuola. Una mattina una Clio grigia si era fermata davanti al cancello, ne erano scesi due tizi che avevano prelevato di peso Salvo Magnano, se lo erano caricato in macchina ed erano ripartiti sotto gli occhi di tutti. Alle undici del mattino, ora di ricreazione.
Accanto al posto di guida c’era un ragazzo dagli occhi azzurro chiaro che fumava una sigaretta. Quando Salvo l’aveva visto aveva cominciato a scalciare, stretto tra le braccia dei suoi rapitori. Tutti l’avevano riconosciuto, ma il ragazzo guardava solo Carola, lì tra le sue amiche. Anche lei lo aveva guardato, con curiosità. Forse era l’unica che non aveva idea di chi fosse.
Sembrava che tutti sapessero perché Salvo Magnano era stato portato via: si era lamentato più volte negli ultimi tempi di non riuscire a rispettare i patti con Sandro Mazzacane, che gli forniva la roba. Salvo era un piccolo spacciatore. Evidentemente Mazzacane aveva perso la pazienza. Era lui quello seduto con la sigaretta in bocca a fissare Carola. I compagni di classe dissero che era il figlioccio di Angelo Matera e amico d’infanzia di Dario Matera. Dicevano che quando il vecchio fosse morto, il Clan Matera sarebbe passato sotto il suo controllo. Dicevano che era un serpente, un assassino, una bestia. Capace di ammazzare perfino sua madre a una parola dei Matera. Dissero che Salvo Magnano non lo avrebbero visto mai più. E fu così, ma non per i motivi che credevano loro. Salvo Magnano finì in ospedale per un mese, nessuno sporse denuncia, e finita la degenza la famiglia intera si trasferì chissà dove.
Carola e Salvo una volta si erano baciati, alla festa di Marika. Poi Salvo aveva allungato le mani sul suo seno e lei l’aveva mandato a quel paese. Adesso non sembrava dispiaciuta per quel che gli era successo. E a differenza delle sue amiche, di Marika, che erano molto impressionate da quei discorsi, lei non sembrava aver paura. Il suo unico commento fu che però quel Sandro era carino. Carola non lo chiamò mai Mazzacane come tutti gli altri.
All’uscita da scuola Sandro era lì, in sella a una grossa moto bianca, come se aspettasse qualcuno. Carola gli lanciò un’occhiata distratta, mise in moto la vespa e partì. Dallo specchietto si accorse che Sandro la seguiva. Fece finta di niente e proseguì fino a casa. Era una bella giornata d’autunno, ai bordi delle strade siepi di foglie morte. Arrivata davanti al palazzo di sei piani in periferia dove abitava lo vide accostare qualche metro dietro di lei, e attendere a motore acceso. Carola accennò a entrare nel portone come niente fosse, poi ci ripensò e gli andò incontro spavalda:
“Che vuoi?”
Lo fissava negli occhi. Lui ridacchiava, sembrava intimidito.
“Non lo sai che voglio?”
Lei aveva annuito per niente divertita.
“Sì che lo so. Vuoi prendermi per il culo.”
Gli aveva dato le spalle ed era entrata nel portone.
Ma non era riuscita a toglierselo dalla testa per tutto il giorno. La mamma la vedeva tra le nuvole e aveva intuito che ci fosse di mezzo un ragazzo, ma tra loro non c’era quel tipo di rapporto confidenziale, e non le aveva chiesto niente. La sera, al telefono, Carola non riuscì a confidarsi neppure con Marika, la sua migliore amica. Avrebbe potuto parlarle di un ragazzo senza dirle chi era, ma non lo fece. Era confusa. Quando si accarezzava, di notte, alla luce sonnacchiosa che entrava dalle persiane, pensava di solito a un attore o alle mani e allo sguardo di qualche ragazzo intravisto nei corridoi della scuola. Quella notte invece pensò a Sandro Mazzacane. Tutto il tempo.
L’indomani mattina uscì da casa con la sensazione di aver sbagliato a cacciarlo via, e lui era lì, in sella alla sua moto, la faccia gonfia di sonno e gli occhi piccoli.
“Lascialo stare.” Mazzacane accennò al motorino di Carola “ti accompagno io, dai.”
Carola accettò.
La moto partì veloce, rombando. Mazzacane chino sul manubrio e Carola stretta a lui per non cadere. I bei capelli castani sciolti al vento. Giunti a scuola lei scese salutandolo con un “ciao grazie” freddo. S’incamminò nel cortile, certo consapevole che gli occhi di Mazzacane erano incollati al suo fondoschiena.
In classe sedette al suo banco con la solita aria un po’ imbronciata un po’ sognante. Marika entrò con l’espressione incredula, le si parò davanti scuotendo la testa:
“È vero quello che mi hanno detto?”
Carola fece una smorfia come se cadesse dalle nuvole. Ma Marika non aveva nessuna voglia di scherzare. Con tono da mamma le disse:
“Ma tu lo sai quello che stai facendo?”
Disse che era pazza, che non sapeva chi era Sandro Mazzacane, che stava dando confidenza a un assassino, che poteva anche stuprarla, e poi ucciderla perché non ne parlasse con nessuno. Quasi pianse. Alla fine per farla tacere Carola giurò che era stata solo una volta, che di Mazzacane non le importava niente. Ma poi rimase pensierosa tutta la mattina. All’uscita di scuola lui la stava aspettando. Lei gli passò davanti senza guardarlo. S’incamminò per il marciapiede a testa bassa. Marika si era offerta di accompagnarla in macchina con sua madre, ma lei aveva rifiutato. Le passò davanti fissandola preoccupata dal finestrino. Le foglie degli alberi frusciavano al vento. Quando Carola si voltò, Sandro Mazzacane era dietro che la seguiva in moto. Si fermò e lo fissò negli occhi, confusa. Sandro non parlava, la lasciava riflettere.
“Me ne pentirò.”
Disse Carola come rassegnata. Sandro sorrise, fece di no in maniera rassicurante. Carola montò in moto dietro di lui e partirono insieme a razzo.
Quella sera Sandro venne a prenderla con una golf rossa ultimo modello. La portò a cena in un locale dai prezzi proibitivi e poi a ballare. Al ritorno, era passata mezzanotte, Carola gli sedeva accanto in macchina, convinta che adesso lui avrebbe poggiato la mano sulle sue gambe, che avrebbe accostato in una zona fuori mano, e avrebbero fatto l’amore. Invece Sandro la lasciò a casa con un bacio sulle labbra. Tutta la paura di Carola scomparve e si accorse che voleva fare l’amore con lui, che altrimenti quella notte non sarebbe riuscita a dormire. Ma sono cose che una ragazza difficilmente dice al primo appuntamento. Lo guardò andare via dalla finestra con uno sguardo triste che già significava: “sono completamente tua”.
Marika in qualche modo lo venne a sapere, le si parò davanti e le disse schifata: “Mi hai delusa.”
E Carola, con faccia evidentemente scocciata: “Ma si può sapere cosa vuoi?”
Questo mise fine alla loro amicizia. E nessuno degli altri ragazzi la avvicinò mai più.
A Carola non importava. Nel diario scriveva Sandro e Carola dentro un cuore formato da tanti cuoricini. Non le interessava più studiare, a casa era sempre nervosa, ogni cinque minuti guardava l’orologio. Quando sua madre seppe chi era il ragazzo che aveva fatto perdere la testa a sua figlia, s’infuriò. Minacciò di buttarla fuori di casa. Carola ne approfittò per andarsene. Sandro se la ritrovò sulla soglia, bagnata come un pulcino perché fuori pioveva, una volta dentro era scoppiata in lacrime:
“Mia mamma mi ha buttata fuori!”
Lui l’aveva stretta a sé, l’aveva consolata, da quel giorno era cominciata la loro convivenza.
Carola aveva lasciato la scuola e Sandro le aveva trovato lavoro alla cassa di un supermercato. Erano tutti gentili con lei, e lei cominciava ad approfittare di essere la ragazza di Sandro Mazzacane.
Non le parlava mai di quel che faceva per vivere, e lei non chiedeva niente. Le bastava che Sandro la amasse, in fondo non l’avrebbe lasciato neppure se lui ogni tanto avesse dato in escandescenze, ma non accadde mai. Lui cucinava per lei, era dolce, la sera guardavano la televisione fino a tardi, poi andavano in camera, lui la spogliava, la baciava tutta, si faceva baciare, e facevano l’amore. Lo facevano quando lei tornava dal lavoro, nella vasca, perché a lui piaceva farle il bagno, e prima di dormire. La casa di Mazzacane era una reggia: megaschermo al plasma, lampadari di cristallo, cucina in muratura... Carola viveva da regina. Quando andavano a ballare indossava tacchi alti, minigonna, scollatura generosa. A lui piacevano tute in nylon preferibilmente bianche, e un berretto di spugna vistosamente griffato copriva il cranio rasato. In discoteca conosceva tutti. Facce tremende di cui Carola ormai non aveva più timore. La trattavano con un rispetto d’altri tempi, le versavano da bere, si preoccupavano per lei, e nessuno si azzardava a dire una sola parola volgare in sua presenza. Ovunque andassero era tutto uno stringere di mani, e gli stessi carabinieri che venivano a casa per l’abituale perquisizione, si fermavano poi a chiacchierare con Sandro al bar.
Superata la verginità Carola aveva preso maggior confidenza col suo corpo. Pantaloni di pelle, minigonne, scollature anche alle nove del mattino. Indossava solo cose che mettessero in risalto le sue forme generose. Tanto, chi l’avrebbe mai infastidita? Il sesso con Sandro era diventato una cosa naturale. Le piaceva il sesso orale, e stringeva le gambe divertita quando la barba incolta di Sandro la solleticava.
Ma ogni tanto si metteva in un angolo, a pensare. Oppure si chiudeva in bagno e sedeva sulla tazza con l’espressione triste. Spesso le venivano in mente delle brutte immagini: il suo Sandro, Mazzacane, quel giorno con il povero Salvo Magnano, nascosti tra le frasche di una zona di mare. Vedeva Sandro avvicinarsi a lui che piangeva e supplicava, e gelido in volto gli assestava un calcio nella pancia. E poi lo osservava contorcersi senza la minima compassione.
Lo avevano picchiato per una questione di soldi, questo Carola lo aveva capito. E c’era un’altra immagine che a volte la tormentava. Quando ancora Marika tentava di farle cambiare idea le aveva raccontato che una volta un ragazzo aveva preso roba da Sandro e poi non aveva pagato. Tanta roba. Sandro lo aveva pizzicato in macchina con la sua ragazza. Li avevano trascinati fuori entrambi, a lui lo avevano pestato a sangue, a lei… no, non l’avevano stuprata – aveva detto Marika notando che era quello che Carola si aspettava. – “Peggio. Sandro Mazzacane le ha pisciato addosso, nei capelli, per fare uno sfregio al ragazzo. E poi le hanno sputato sopra. Di quegli sputi con il muco.”
Marika aveva terminato dicendo:
“Vedi? Questo è Sandro Mazzacane.”
Lei non voleva credere a questa storia, ma non era riuscita a dimenticarla. Non gli aveva mai chiesto niente di ciò che faceva al di fuori della loro relazione, ogni tanto era lui che ne parlava. Quando in televisione dicevano che qualcuno era stato arrestato, o ucciso, lui che li conosceva tutti commentava:
“Era un fango di uomo.”
Oppure:
“Carabinieri infami, perché non arrestano chi se lo merita?”
Una sera, a letto, dopo aver fatto l’amore, lui le aveva raccontato com’era morto suo padre. Carola stava rannicchiata sul fianco, sotto le coperte a fissarlo in volto, lui aveva lo sguardo perso sul soffitto. C’era solo un’abat-jour accesa, e di fuori il vento ululava.
“A mio padre gli hanno sparato” cominciò Sandro.
Era accaduto al cimitero. Spiegò che suo padre fissava al cimitero i suoi incontri di lavoro perché era un posto sicuro. Conosceva i suoi killer, e appena li vide annusò l’agguato e si nascose dietro una cappella. Non si diedero pace finché uno lo trovò, gli si avvicinò alle spalle e gli scaricò addosso cinque colpi. Poi arrivò l’altro e gliene piantò uno in fronte. Sandro raccontava mostrando con le dita a pistola i punti in cui l’avevano colpito. Tacque un momento e poi riprese a parlare.
Disse che la colpa era stata di suo padre. All’epoca c’era la guerra, e lui si era messo dalla parte sbagliata. Non aveva saputo scegliere i vincenti. A lui non sarebbe mai accaduto. Disse che la guerra è strategia prima di tutto.
Solo l’indomani Carola comprese che Sandro aveva fatto strada proprio nell’organizzazione che gli aveva ammazzato il padre.
Alcuni di loro li conosceva. C’era il migliore amico di Sandro, Ernesto, un omone sul rossiccio, rasato anche lui, che a prima vista faceva molta paura ma in realtà era un orsacchiotto. Spesso veniva a cena da loro con la moglie, Graziella, magra magra, e Carola e Sandro scherzavano su come facessero l’amore. Ma la gente che faceva davvero paura, Carola l’aveva vista una volta sola. Un pomeriggio mentre erano fuori con la golf di Sandro avevano chiamato al cellulare. Sandro aveva risposto solo sì e no, e poi aveva spiegato a Carola che dovevano passare da un posto, e si era incupito perché era evidente che non gli piaceva dover portare anche lei. Arrivarono nei pressi di una palazzina in periferia, sotto i portici c’erano macchine appariscenti che cozzavano con la sporcizia della strada. C’erano facce strane. Anche ragazze dall’aria volgare. Sandro disse a Carola di aspettarlo in macchina, scese e fu tutto un sorriso per quella gente che lo abbracciava e scherzava sguaiata. Un ragazzo dai capelli lunghi e la faccia antipatica la fissava con un brutto sorriso come di scherno. Si capiva che non era uno dei tanti, indossava un lungo soprabito nero, la faccia butterata. Disse due parole al tipo che gli stava vicino e risero entrambi e si misero a fissarla, ma Carola distolse gli occhi. Rimasero pochi minuti, Carola non domandò niente, fu Sandro a dirle:
“Hai notato quello coll’impermeabile nero e la faccia che sembra un dobermann? Quello è Toni Matera, il figlio piccolo di Angelo. È un pezzo di merda numero uno, ma non si può toccare, altrimenti se lo sarebbero giocati già da un pezzo…”
Quando parlava così guardava nel vuoto, come per il racconto di suo padre. Come parlasse con se stesso.
Quella sera la portò a mangiare fuori. Un ristorante elegante con pianobar. A un tratto il musicista aveva attaccato la loro canzone, - Un tempo piccolo - dei Tiromancino.
Sandro le prese la mano e fece il sorriso furbo di quella volta che lei aveva detto “io me ne pentirò”, poi si forzò di essere serio e guardandola negli occhi le chiese:
“Mi vuoi sposare?”

Il giorno dopo Carola lo diceva a sua madre, e lei reagiva piangendo e disperandosi.
“Ho perduto una figlia. Con quello finirai male!”
E Carola presa dai nervi se ne andò a piedi. Arrivò in centro sudata, la gonna appiccicata al sedere, s’infilò nel primo negozio e comprò il profumo più costoso che avevano. Poi si rimise in marcia verso la fermata dell’autobus, ma le si affiancò una macchina sportiva, qualcuno da dentro la chiamava per nome. Carola si chinò sul finestrino e si trovò davanti al sorriso sarcastico e lo sguardo sfrontato di Toni Matera, il pezzo di merda che quel giorno l’aveva fissata tutto il tempo, nientemeno che il figlio minore di Angelo Matera. Voleva darle a tutti i costi un passaggio. Voleva offrirle qualcosa da bere.
“Dai, è cosa di un momento, qui al bar!”
Carola si costringeva a sorridere nonostante avesse paura. Negò, inventò scuse. Toni si spazientì e Carola se ne andò per la sua strada, ma lui la seguiva, insisteva:
“Non glielo diciamo a Mazzacane, stai tranquilla!”
Lei non trovava via d’uscita, come sempre in queste situazioni avrebbe voluto piangere. Disse va bene, ma si fece promettere che cinque minuti e l’avrebbe riaccompagnata a casa, lui giurò. In macchina nemmeno erano partiti che già Toni le passò il dito sul bordo della scollatura:
“Sei sudata, ma quanto hai camminato?”
E Carola si chiese cosa poteva capitarle se si fosse buttata in corsa fuori dalla macchina. Toni guidava e intanto le parlava di Sandro. Lo aveva cresciuto la sua famiglia, diceva, e lui non lo conosceva bene perché Mazzacane era più amico di suo fratello Dario, che poi suo fratello non se li era mai saputi scegliere gli amici, ma non per parlar male di Mazzacane, eh!
E di Sandro raccontò le cose peggiori, sempre anteponendo che comunque lui lo rispettava, che era un bravo ragazzo però… c’era sempre un però. Carola non lo ascoltava più. Si chiedeva soltanto preoccupata: “Ma dove mi sta portando?”
Alla vecchia cava di pietra. C’era stata con Sandro, qualche volta. Quando erano in giro e a lei veniva voglia, gli cantava una canzoncina:
“Voglio in bocca una cosa bella
Che non è una caramella…”
E allora lui sterzava e guidava fin lì. Non era lontano. Poi una volta c’erano andati anche per un altro motivo…
Toni spense il motore, Carola era tanto indignata che non riusciva a parlare. Toni le fece una dichiarazione da porco. Disse che da quella volta che l’aveva vista non riusciva a pensare a nessun’altra, disse che la voleva e niente e nessuno poteva fermarlo, disse che avrebbe pure ammazzato per lei, che da una donna come lei si sarebbe fatto fare di tutto. Le posò la mano sulla coscia, ansimava, Carola gliela strappò via, provò a ragionarci:
“Sandro è tuo amico…”
Rispose che non si doveva preoccupare di lui, che non avrebbe mai saputo niente, e poi cosa voleva che gliene fregasse di Sandro?
“Ti pare che mi mette paura a me? Ma lo sai cosa mi può fare Sandro Mazzacane?
E fece un gesto volgare, e Carola risentì in testa se stessa che cantava la canzone della caramella e le venne la nausea. Toni si era stancato di parlare, la toccava come se Carola fosse stata una statua, come se avesse voluto mostrarle i motivi per cui non poteva resisterle. Disse che non doveva sentirsi in colpa per Mazzacane perché l’aveva tradita mille volte e lui aveva tutte le prove, la minacciò che gli avrebbe detto comunque che lei c’era stata, le disse:
“Mi accontento di un bacio. Solo un bacio.”
Carola forzandosi lo accontentò. Lui le mangiò le labbra, Carola fu in balia della sua voglia, le infilò le mani sotto la gonna, lungo le cosce, le scostò le mutandine e la penetrò con le dita mugolando, leccandole il palato, forzandola con i gomiti ad allargare di più le gambe. Carola fece uno sforzo e con un grugnito folle gli spaccò in testa la boccetta di profumo che aveva appena comprato, colpendolo con tutta la busta.
Toni ricadde ferito sul sedile, stringendosi l’occhio sanguinante. Bestemmiava e la insultava, Carola si mise a frugare dentro la borsetta con le lacrime agli occhi.
Tempo prima con Sandro aveva assistito a un pestaggio. Due balordi contro un ragazzino. Passavano di là con la macchina, era sera, Sandro era sceso e gli aveva gridato di lasciarlo stare. Quelli si erano avvicinati minacciosi e Sandro li aveva fatti scappare sollevandosi la felpa e mostrando il calcio della pistola infilata nei Jeans. O forse era stata la luce del lampione che gli aveva illuminato la faccia così che i due lo avevano riconosciuto. Sandro era stato a pensarci per giorni. Diceva che c’era gente pericolosa in giro, fuori controllo. Il terzo giorno le regalò una piccola pistola bianca. Disse:
“La puoi tenere in borsetta.”
Le insegnò a sparare lì alla vecchia cava di pietra. Le sole volte che non ci andavano per fare l’amore era stato per sparare.
Carola aveva appena stretto la mano sulla pistola quando Toni la strattonò per i capelli, continuando a premersi l’occhio. Carola senza pensarci gliela puntò contro con entrambe le mani e chiuse gli occhi. E sparò. Quando li riaprì l’abitacolo era pieno di fumo, Toni era contro la portiera, la bocca piena di sangue, boccheggiava, e la fissava cogli occhi sbarrati. Annegava nel suo sangue. Uno due, tre, e morì.
Carola si gettò fuori dalla macchina, scappò via, veloce fino a casa, piangendo. La gente la guardava correre, era così stravolta che nessuno la riconobbe. E chi la riconobbe si fece i fatti suoi.
Suonò insistente alla porta, quando Sandro aprì gli si gettò ai piedi, gli abbracciò le ginocchia. Era sconvolta.
“Ma che è successo?!”
Lei non riusciva a parlare, piangeva e non si capiva niente. Sandro la sollevò, la scosse, capiva che qualcuno aveva fatto del male alla sua ragazza e questo era inconcepibile. Carola riusciva a dire soltanto:
“L’ho… ammazzato! L’ho… ammazzato!”
“Chi? Chi?” gridava Sandro scuotendola. Alla fine balbettò il nome, e la faccia di Sandro si fece di marmo. La lasciò andare, come se avesse perso tutte le forze. Si portò le mani al viso con tanta violenza da schiaffeggiarsi. Ricadde sul divano guardando Carola a bocca aperta.
“Che cosa hai fatto?”
E per la prima volta le fece paura.
Le disse: “Vai a farti una doccia.”
E lei obbedì. Rimase mezz’ora sotto il getto dell’acqua, costringendosi a smettere di tremare ma senza riuscirci. Questa volta Sandro non entrò con lei a insaponarla, a sciacquarla. Si chiuse in salone e fece decine di telefonate. Gridava, sbatteva giù la cornetta, picchiava i pugni contro il muro. Non riusciva a rimanere lucido, stava perdendo il controllo e non se lo poteva permettere. In quella situazione no. Rischiava di perdere tutto e questo lo sapeva anche Carola, il suo corpo statuario immobile sotto la doccia era il vero colpevole di tutto. Quando Ernesto arrivò Carola era sul divano in accappatoio. Cercò di sorriderle ma suonava finto. Sandro nervosissimo lo abbracciò e lo condusse in soggiorno. Chiusero la porta. Carola li sentiva bisbigliare dietro la parete. Udì Sandro bestemmiare ad alta voce, e una sedia che cadeva. Carola sapeva che adesso avrebbero dovuto fuggire, non gli restava altro. Come Salvo Magnano, anzi peggio. Aveva ucciso il figlio di Angelo Matera. Non avrebbe rivisto mai più sua madre, forse non avrebbe nemmeno potuto salutarla l’ultima volta prima di partire. E se non li avessero lasciati andare via? Ernesto era venuto sicuramente per aiutarli, aveva portato forse i biglietti dell’aereo, stavano decidendo un piano per fuggire, ma se li avesse traditi?
Aveva ucciso il figlio di Angelo Matera. Non gli avrebbero dato scampo. Forse se per un miracolo avessero arrestato tutto il clan… ma era impossibile arrestarli tutti. Che speranze avevano?
Ma cos’altro avrebbe potuto fare lei? Le venne voglia di irrompere in soggiorno e gridare in faccia a Sandro:
“Preferivi che lo assecondassi? Che mi lasciassi scopare da lui tutte le volte che voleva senza dirti mai niente?! Era questo che dovevo fare?”
Pianse. La porta del soggiorno si aprì, ansiosa li vide uscire, abbracciati, sorridevano. Sandro vide che piangeva, le prese il mento tra le dita con delicatezza:
“Ehi, non ti preoccupare abbiamo già sistemato tutto.”
“Ce ne dobbiamo andare?”
Sandro rise:
“E dove dovremmo andare? No, abbiamo parlato con Dario, lo sai che gli vengo fratello più io che quell’altro. Gli abbiamo spiegato quello che è successo e ha capito. E poi mica lo hai ammazzato…”
Carola annuì agitata. Lo aveva visto morire. Sandro rideva:
“No che non l’hai ammazzato. È vivo, è in ospedale. L’hai soltanto ferito. Ma poi tu che ne sai, ammazzato ammazzato!, se un morto non lo hai mai neanche visto… Fidati di me, è tutto a posto.”
Fidati di me, non gliel’aveva mai detto. Carola cercò Ernesto con lo sguardo, come per avere conferma a quelle parole, ma scoprì che se n’era andato. Senza salutare.
Il pomeriggio passò come se niente fosse successo. Carola rimase in vestaglia sul divano accanto a Sandro a guardare la televisione. Di tanto in tanto lui le sorrideva, ma Carola aveva colto più volte sul suo viso preoccupazione, angoscia. Sandro beveva e andava in bagno in continuazione.
Era confusa. La situazione non poteva essersi risolta così, in una bolla d’aria. Lui le stava nascondendo qualcosa. Sarebbe scoppiata una guerra per causa sua? Qualunque cosa fosse, era evidente che Sandro non voleva farla preoccupare. Quella sera cenarono in silenzio, cucinò lui. Disse che avrebbe preparato qualcosa di speciale per tirarla su. Nella mente di Carola si creò un’associazione strana, cercò sicurezza nei suoi occhi, ma lui non le sorrideva in quel modo che lei amava tanto. Mentre mangiavano Sandro cercò di farla ridere, ma suonava patetico. Lei lo guardava strano, più volte lui le chiese:
“Che c’è?”
E lei si schermiva:
“Come che c’è? Hai dimenticato cosa ho passato stamattina?”
E lui sorrideva dolce. Troppo dolce. Forse erano le attenzioni per quel che le era successo, ma Carola era sospettosa. Andarono a letto presto. Lei stava per coprirsi col lenzuolo, lui si fermò a osservarla, era così bella con solo l’elastico bianco del tanga intorno ai fianchi, semisdraiata, le ginocchia in su, gli occhi grandi. Le chiese di non dormire nuda, di indossare magari una vestaglia.
“Perché?” chiese lei, “sento caldo.”
Lui insistette, disse che non voleva vederla nuda quella sera. Poi disse: “Aspetta.”
E uscì dalla stanza, come avesse scordato qualcosa. Carola obbedì, indossò una vestaglia azzurra leggera, si mise sotto le coperte e sistemò i capelli sul cuscino. Sandro tardava. Quando tornò teneva qualcosa in mano. Una tazza di camomilla. In quel momento Carola capì tutto. La cena, il dormire vestita, le sue premure. Sandro Mazzacane quella notte l’avrebbe uccisa. Quando aveva detto che preparava qualcosa di speciale le era venuta in mente l’ultima cena dei condannati a morte, le aveva chiesto di dormire vestita e aveva subito pensato a lui ed Ernesto che trasportavano via il suo corpo, e Sandro era capacissimo di essere geloso di lei anche da morta, non avrebbe permesso che il suo amico la vedesse nuda. Ora la camomilla. Era certa che fosse drogata. Certa che se l’avesse bevuta non si sarebbe svegliata più. Mezz’ora, forse un’ora dopo, SandroMazzacane avrebbe soffocato la sua promessa sposa con un cuscino, o forse le avrebbe sparato in testa. Poi avrebbe infagottato il suo corpo nei sacchi di spazzatura neri e l’avrebbero gettata alla vecchia cava, o magari in mare.
Perché? Prima di tutto perché Carola sapeva benissimo che Toni Matera era morto. Sandro le aveva detto il contrario solo per farla stare quieta, per evitare che intuisse qualcosa e fuggisse. L’aveva ucciso Carola: eliminata lei eliminato il colpevole, e tutto per Sandro sarebbe tornato a posto. Ripensò agli avvertimenti di sua madre e di Marika. Avrebbe dovuto capirlo lei stessa: Sandro Mazzacane, l’uomo che per raggiungere il potere era passato sopra l’assassinio di suo padre!
Lo fissava negli occhi. Lui insisteva perché bevesse la camomilla. Lei ne prese un sorso, era zuccheratissima. Disse che non la voleva, che aveva un brutto sapore. Le tremava la voce. Lui sorrise, ma nervoso. Disse che era per farla riposare, che l’aveva preparata lui, che si sforzasse…
Squillò il telefono, Sandro dovette andare a rispondere e Carola ne approfittò per gettare il contenuto della tazza in un vaso. Quando Sandro tornò fece una faccia strana vedendo che l’aveva bevuta tutta. Sembrava pentito. Con lo sguardo lei lo supplicava di ripensarci.
“Vado a guardare un po’ di televisione,” disse “ora torno.”
“Non rimani con me?” chiese lei con il pianto in gola.
Sandro si avvicinò, le diede un forte bacio sulla fronte:
“Buonanotte, amore mio.”
E la lasciò sola. Lei si rannicchiò su se stessa e pianse. Non riusciva a credere che Sandro le avrebbe fatto del male, tuttavia aveva imparato a conoscere il suo modo di pensare, sapeva che l’avrebbe fatto. Stupida lei a tornare lì, doveva scappare subito dai carabinieri, il suo primo pensiero doveva essere “adesso Sandro mi ammazza.”
Era tornata perché lo amava. Lo amava anche adesso, pur sapendo che sarebbe venuto tra poco a ucciderla. Ma per quanto lo amasse, non gliel’avrebbe permesso. Prese la lima per le unghie dal cassetto, il terrore la fece ragionare in fretta: appena Sandro fosse entrato, lei gli sarebbe saltata addosso senza dargli tempo di accorgersene, e gli avrebbe conficcato la lima nel collo. Progettava e piangeva. E cercava di trattenere i singhiozzi perché lui non la sentisse. Aspettò, ma Sandro non arrivava. Allora decise di andare lei da lui. La lima nascosta nella manica della vestaglia, per parlargli a viso aperto. Sono qui. Vuoi uccidermi, fallo! Io ti amo.
Uscì silenziosa dalla camera, s’incamminò a piedi nudi per il corridoio buio. Vedeva la luce della tv filtrare dal vetro della porta chiusa del salone. Era quasi arrivata, quando la porta d’ingresso si schiantò a terra e si trovò di fronte almeno sei uomini. Ne riconobbe due, Ernesto, e Dario Matera. Carola cadde a terra con uno spasimo, la lima le scivolò di mano.
“Sorpresa!” fece Dario Matera con l’espressione folle, le labbra che tremavano, “sorpresa!”
Carola a terra lo fissava attonita, tremiti fortissimi la scuotevano. In mente la voce di Marika: “Vedi? Questo è Sandro Mazzacane.”
Ecco a cosa erano servite tutte quelle telefonate:
“È stata lei. No, io non me la sento. Fatelo voi. Fate di lei quello che volete. Potete contare sulla mia fedeltà, sempre.”
Ed eccolo lì il plotone d’esecuzione. C’era anche Ernesto, il fedele Ernesto. Sandro? Sandro rimaneva chiuso in salone, a guardare la tv. Fu Ernesto il primo a venirle incontro. Carola chiuse gli occhi davanti alle grandi mani tese su di lei. Ernesto la sollevò, la strinse a sé, disse a Matera:
“I patti sono che lei resta fuori!”
Allora spalancarono la porta del soggiorno con tanta violenza che ruppero il vetro. Accerchiarono Sandro seduto su una sedia, Matera gli si mise di fronte. Lo schiaffeggiavano a turno, lui non reagiva ma a ogni ceffone sollevava gli occhi su quello che lo aveva appena colpito, come a sfidarlo.
Dario Matera gridava:
“Perché lo hai ammazzato eh? Dimmi perché lo hai ammazzato! Io oggi perdo due fratelli, figlio di puttana!”
Poi Sandro si accorse di Carola e sgranò gli occhi stupito per un secondo. Questa volta non era andata come nei suoi piani: il sonnifero nella camomilla doveva farla dormire, e risparmiarle tutto questo. Carola stretta tra le braccia di Ernesto lo guardava e piangeva. Scuoteva la testa. Lui non poteva sentirla, ma gli stava chiedendo scusa.
Allora le sorrise. Il sorriso furbo e rassicurante di Sandro, poi guardò negli occhi Dario e disse:
“Perché tuo fratello era un fango.”
Calò il silenzio. Gli uomini fecero un passo indietro, puntarono le pistole. Sandro sorrideva guardandoli in faccia, poi Ernesto coprì gli occhi di Carola con una mano, e lei poté udire solo il rumore dei colpi.
Cinque, poi Dario Matera gliene sparò uno in fronte mentre Sandro era già a terra. Rivolgendosi a Carola gridò:
“Guarda, il mazzacane si spaccò!”
E guardò i suoi uomini con l’espressione allegra di un pazzo, e quelli risero.
Carola non vedeva niente, solo il buio dentro la mano di Ernesto.
Ernesto la strinse forte. Carola si accorse che aveva la guancia umida, e senza salutarla se ne andò via. Non c’era più nessuno, era rimasta lei, e Sandro steso sul pavimento. Morto. Non ebbe il coraggio di rimanere in casa, si sedette sul gradino delle scale, sul pianerottolo, accanto all’uscio scardinato dell’appartamento. E aspettò la polizia che qualcuno sicuramente aveva già chiamato. Da lì riusciva a scorgere una scarpa da ginnastica di Sandro, il calzino, il lembo della tuta. Stava disteso a braccia e gambe aperte, così com’era vissuto. Carola non volle vederlo. Rimase sulle scale a pensare che non si era fidato nemmeno di Ernesto. Per questo le aveva chiesto di vestirsi per dormire, temeva che vedendola nuda dopo che l’avevano ucciso magari potessero venirgli strane idee… aveva sempre pensato a Carola, prima di tutto. Fino alla fine.
L’indomani i giornali dissero che la sua morte era legata all’omicidio di Toni Matera, rinvenuto cadavere nella auto di sua proprietà con un proiettile di piccolo calibro in gola. Raccontarono che Sandro era stato un esponente di spicco del clan Matera, che era sospettato di almeno undici omicidi, e c’era una fotografia che confermava. Una foto da centrale di polizia, un primo piano in bianco e nero da balordo. Questo era stato Mazzacane.
Carola invece preferiva ricordare Sandro Torrisi. Questo fu il nome che fece apporre sulla lapide, e mise una foto dove lui aveva il sorriso di quando la rassicurava, quello con cui le aveva chiesto di sposarlo. Il sorriso che le aveva regalato un attimo prima di morire.
E sotto fece scrivere:
Buonanotte, amore mio.

Il Tempo di un Caffé

Selezionato al premio letterario "Ilbox - i delitti di Cronaca Vera", e pubblicato sulla rivista "Cronaca Vera" il 3 dicembre 2008;
Finalista al Premio Letterario “USAM – una storia al mese” indetto da “edizioni XII” (settembre 2008)

1.

Laura si tirò su dal letto con la faccia di chi non ha chiuso occhio tutta la notte. Sembrava dieci anni più vecchia. Indossò la vestaglia rosa che Filippo le aveva regalato l’anno prima, per l’anniversario, e andò in cucina strascicando le pantofole. Ci aveva messo dieci minuti per trovare la forza di alzarsi dal letto. Dieci minuti a occhi aperti a domandarsi perché mi dovrei alzare?

Passò davanti alla porta aperta del soggiorno. Ci dormiva Filippo, sul divano, i piedi nudi sporgevano dal bracciolo. Laura non lo degnò di un’occhiata. Gli occhi ancora gonfi del pianto della sera prima, si mise ai fornelli a preparare il caffè.

Tirando su col naso e riempiendo a cucchiaiate la caffettiera cercò di scacciare dalla mente i ricordi di trentacinque anni passati insieme. Tanto sapeva che sarebbero ritornati a tormentarla. La aspettavano anni e anni di tormento e rimpianto. Suicidarsi? non l’avrebbe mai fatto. Minacciare di farlo non sarebbe servito, lo sapeva. Era finita ma non riusciva ad accettarlo. Come si fa ad accettarlo?

Piena di odio, di rabbia. Lo aveva coperto di graffi, lo aveva picchiato, era servito solo a farli piangere entrambi. Lo aveva visto in ginocchio, alla fine, singhiozzante, umiliato. In ginocchio a cinquantasette anni a piangere come un bambino.

- Ti prego lasciami andare – l’aveva implorata, a testa china e la mano a coprirsi gli occhi.

E lei invece aveva continuato:

- Con quella puttana! Con quella troia! – troneggiando su di lui, senza pietà, sputandogli in testa il suo odio…

Sputando…

Avvitando forte la caffettiera pensava che la loro storia era nata da uno sputo, e le venne da piangere. Ancora. Si trattenne perché lo sentì arrivare, schiaffeggiando il pavimento coi piedi nudi. Era dietro di lei, sulla porta.

- Buongiorno. – disse Filippo, lei non rispose.

Lui si strofinava gli occhi coi polpastrelli, i pochi capelli spettinati. Aveva lanciato un’occhiata alla porta d’ingresso come per assicurarsi che le valigie fossero ancora lì, che lei non le avesse svuotate o nascoste. Non gli passò per la mente di sedersi, di provare a ragionare con la donna con cui aveva condiviso una vita. Tanto era inutile.

Tornò indietro, si infilò in bagno. A lavarsi, a prepararsi per andare via.

Lei era stata lì lì per voltarsi. Aveva pensato di sorridergli. Provarci almeno. Aveva immaginato sé stessa più bella di com’era, con un sorriso che non le sarebbe riuscito mai, che si voltava e gli diceva:

- Te lo ricordi quando ci siamo incontrati la prima volta?

Lui avrebbe chinato gli occhi. E poi avrebbe sorriso a sua volta preso dai ricordi. Avrebbero ricordato insieme, avrebbero riso.

Si erano conosciuti alla festa di qualcuno. Lei era sicuramente la più bella di tutte in quel giardino, o almeno così si sentiva. Lui era insieme ad altri tre amici. Si scambiavano occhiate, erano tutti e due ubriachi. Lei di più perché non c’era abituata. Poi lui si era avvicinato, come le batteva il cuore, e le mani tremavano! E le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio con tutta la sfacciataggine dei suoi vent’anni. Tanto sfacciato lui e tanto ubriaca lei che aveva frainteso. Lui aveva detto:

- Ti posso accompagnare a casa?

E lei aveva capito tutt’altro, qualcosa di sconcio.

Si era fatta tutta rossa, e il primo impulso era stato di mollargli un fragoroso schiaffone, poi invece si era accontentata di fargli una risatina acida e sputargli nel bicchiere. Aveva fatto per andarsene quando qualcosa l’aveva trattenuta. Lui che d’un fiato scolava il bicchiere in cui aveva appena sputato. E poi la fissava. Quegli occhi le trafissero l’anima. E da allora era stata sua.

Se ne avessero parlato ora di sicuro avrebbero riso insieme, si sarebbero avvicinati, e lui si sarebbe seduto. Ma lui era andato a prepararsi per uscire da quella porta e non tornare più e lei era lì, la faccia gonfia, ad aspettare che il caffè uscisse sapendo che mai l’avrebbe lasciato andare.

2.

Non sarebbe mai riuscita a sorridergli. Ci aveva anche provato, ma poi se lo immaginava a letto con quella, e diventava una iena. Lui era suo. Era suo. Non poteva permettere che una sciacquetta di trent’anni più giovane di lei glielo portasse via. Non ce la faceva a sopportarlo.

Filippo ritornò in cucina. Si era vestito, i capelli pettinati all’indietro, gli occhi non più assonnati la fissavano blu come quella sera. Ma solo il colore era lo stesso di allora. Lo sguardo … erano anni che non la guardava più in quel modo.

Laura gli porse il caffè senza guardarlo in faccia, devastata. Filippo si avvicinò per prendere la tazzina ma Laura ritrasse la mano d’istinto, con un brivido come se temesse di essere toccata da lui.

- Laura … - cominciò Filippo con voce rotta.

Laura scosse la testa. Filippo sospirò. Laura si diceva lascialo andare via, arrenditi, lascia che si rifaccia una vita, al massimo puoi sperare che lei si stanchi e te lo rispedisca indietro come un cane. Tu te lo riprenderesti, no?

Quale che fosse la risposta, Laura decise che andava bene così: te ne puoi andare. Ma le salì la rabbia. E invece di rovesciarglielo addosso sputò nel caffè, per istinto, convinta che l’avrebbe umiliato uguale, anzi di più. E per finire quella storia così come era cominciata. Sputò nel caffè e gli diede le spalle, perché la reazione di Filippo non se la sarebbe aspettata mai.

Filippo bevve il caffè come quasi quarant’anni prima aveva bevuto quella birra. Lei lo fissò stralunata, gli occhi di Filippo erano gonfi, rossi.

- Addio Laura. – disse con voce strozzata, e un secondo dopo se n’era andato.

Laura era sconvolta. Allungò la mano come se potesse ancora toccarlo. Corse a prendere il cellulare con l’intenzione di chiamarlo, visualizzò il suo numero e rimase a fissarlo senza premere il pulsante.

Filippo scese le scale col groppo in gola, asciugandosi di continuo gli occhi. Non voleva farsi vedere così da Alice. Si mise in macchina che lo strazio per il distacco da Laura gli aveva chiuso lo stomaco. Rimase un secondo la schiena premuta contro il sedile, a occhi chiusi a far passare la nausea. Poi partì.

Laura fissava ancora il telefonino. Ogni tanto un sussulto, un lampo di coscienza negli occhi. Si diceva lo devo chiamare. Non riusciva a crederci, l’aveva fatto davvero alla fine. Poi tornava come incantata a fissare il numero. Nella mente una voce come da lontano gridava:

- Chiamalo! Chiamalo! Diglielo! Ma che stai facendo, fermalo!

Filippo intanto correva verso casa di Alice. Correva perché tutto quel che voleva era vederla, dirle cominciamo la nostra vita insieme, scordarsi della vecchiaia e dell’angoscia che aveva lasciato nella sua vecchia casa. Ricominciare da capo col sorriso di Alice accanto, la luce dei vent’anni che le brillava negli occhi. Ma non riusciva a scrollarsi di dosso l’ansia e lo stress di quegli ultimi giorni. Gli girava la testa, faticava a respirare. Pensò di accostare ma poi gli parve di stare meglio e proseguì. Casa di Alice era in fondo alla strada. Gli parve perfino di riconoscerla alla finestra. Sorrise, poi qualcosa di strano gli si smosse nello stomaco. Un fiotto denso gli risalì per la gola, gli impedì di respirare. Un lampo di panico negli occhi, un raschiare di gola, s’irrigidì.

Alice lo aspettava davvero davanti alla finestra, stava lì dall’alba. L’appartamento glielo aveva preso lui quando per causa sua Alice aveva abbandonato la famiglia. Riconobbe la macchina, infilò le scarpe bianche da ginnastica che lui le aveva regalato e scappò giù per le scale felice. Non aveva dubbi che Filippo fosse l’uomo della sua vita, non era stata triste un giorno solo da quando c’era lui. Si mise a correre incontro alla macchina, il giornalaio sorrise nel vedere una ragazza tanto carina che correva felice come verso i suoi sogni. Ma Alice si fermò di botto quando vide la macchina sbandare, salire sul marciapiedi, piombare su di lei. Si appiattì contro il muro, ma l’auto di Filippo la travolse, la ingoiò. Abbattuto un segnale giallo di fermata dell’autobus si fermò contro una fila di auto parcheggiate. Si lasciava dietro una lunga scia rossa, e una scarpa da ginnastica bianca. La gente che si radunò intorno sconvolta vide le gambe di Alice che sporgevano dritte tra le ruote posteriori.

Laura aveva smesso di fissare il telefono. Era più calma adesso. Dopotutto che ne sapeva lei di sonniferi? Che ne sapeva di dosi? Al massimo, si diceva, Filippo avrà accostato da qualche parte e si sarà fatto una dormita. Lei aveva messo le gocce nel caffè così … non pensava di farglielo bere. L’aveva fatto così … per dire potrei farglielo bere. E poi sputarci dentro era stata una reazione, un istinto. Come poteva immaginare che l’avrebbe bevuto! E poi, che significava che l’aveva bevuto? Non poteva significare che forse la amava ancora? Sorrise come cullasse una speranza dentro, e intanto controllava la boccetta.

Simone Lega

11 agosto 2008